La moglie giovane e laureata avrà difficolta ad ottenere l’assegno divorzile.
Tribunale di Treviso, sez. I Civile, sentenza 8 gennaio 2019
Nel corso di una causa di separazione la moglie, laureata e che si era dimessa volontariamente dall’azienda per cui lavorava e, successivamente, anche da altra attività lavorativa reperitale dal marito stesso, non ha diritto secondo il Tribunale di Treviso, di ottenere l’assegno divorzile.
La legge 1 dicembre 1970, n. 898, all’art. 5, comma sesto, dispone: “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.
L’interpretazione di tale disposizione deve essere rivisitata in seguito alla sentenza delle Sezioni Unite 11 luglio 2018, n.18287, con la quale la Suprema Corte ha cercato di offrire alcune chiavi di volta ai giudici di merito per la determinazione e quantificazione dell’assegno divorzile, a fronte del variegato panorama giurisprudenziale formatosi successivamente al revirement compiuto dalla prima sezione della Corte di Cassazione nel maggio 2017 con la sentenza n. 11504, chiarendo che non deve ritenersi sussistente alcuna scissione tra “an debeatur” e “quantum debeatur”, come invece ritenuto per orientamento consolidato sin dalle Sezioni Unite del 29 novembre 1990 n. 11490. Per maggiore chiarezza espositiva devono essere ripercorsi le fasi salienti dell’iter giurisprudenziale.
In un primo momento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 2008 del 1974) avevano attribuito all’istituto dell’assegno divorzile una natura composita, al contempo assistenziale, risarcitoria e compensativa.
In seguito alla riforma introdotta dalla l. n. 74 del 1987, si è ritenuto dovesse essere effettuato un giudizio bifasico, stabilendo in primo luogo se sussistesse o meno un diritto all’assegno e solo successivamente quantificandone l’ammontare. L’an veniva individuato nella sussistenza di mezzi adeguati, e dunque slegato da parametri legali, mentre il quantum era parametrato in base ai criteri indicati nel modificato art 5 l. div.
Si è successivamente affermata in giurisprudenza una funzione esclusivamente assistenziale dell’assegno, fondata, quanto alla fase di accertamento del diritto all’assegno divorzile, sul criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (il cui apice si è registrato in Cass. civ., Sez. Unite, sent. 29 novembre 1990, n. 11490), parametro tuttavia privo di un riferimento legislativo, costruito sul presupposto dell’ “inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio” (fra le altre, cfr. Cassazione civile, sentenza 21 ottobre 2013, n. 23797).
Tale criterio andava desunto “dalle potenzialità economiche dei coniugi, ossia dall’ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali” (in questo senso, anche Cassazione civile, sentenza 9 giugno 2015, n. 11870; Cassazione civile, sentenza 12 luglio 2007, n. 15610; Cassazione civile, sentenza 28 febbraio 2007, n. 4764): l’inadeguatezza dei mezzi era quindi intesa come insufficienza delle sostanze e dei redditi del richiedente ad assicurargli la conservazione di un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio.
La circostanza che il tenore di vita non trovasse un suo riferimento nel dato legislativo aveva portato alla rimessione della questione alla Corte costituzionale, con ordinanza del 22 maggio 2013 da parte del Tribunale di Firenze. Infatti ci si era chiesti se l’interpretazione fornita dal diritto vivente di un assegno volto a garantire al coniuge più debole economicamente il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio fosse compatibile con la Costituzione. Con sentenza n. 11 del 2015 la Corte ha dichiarato la questione non fondata, stabilendo che il tenore di vita dovesse essere tenuto in considerazione in astratto quale tetto massimo della misura dell’assegno, suggerendo inoltre una concezione unitaria del giudizio tra an debeatur e quantum debeatur.
2.2.4 L’interpretazione dell’articolo 5, comma sesto, l. div. è stata profondamente modificata dalla sentenza della Corte di Cassazione del 10 maggio 2017, n. 11504, poi confermata dalla sentenza 22 giugno 2017, n. 15481.
La Suprema Corte ha ritenuto in tale arresto giurisprudenziale che la presenza di mezzi adeguati o la possibilità di procurarseli comporti la negazione del diritto all’assegno divorzile. Poiché con il divorzio si attua uno scioglimento definitivo del vincolo matrimoniale, si sarebbe dovuto accertare il raggiungimento dell’indipendenza economica del richiedente, al quale non doveva essere riconosciuto il diritto se economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo.
La Corte di Cassazione, pertanto, aveva confermato la finalità assistenziale dell’assegno, evidenziando però la necessità di sostituire il parametro del tenore di vita matrimoniale con quello dell’autosufficienza economica. Va rilevato, però, che anche tale criterio non trova appiglio in alcun specifico riferimento legislativo, al pari del tenore di vita.
Successivamente alla pronuncia del maggio 2017, si sono registrate diverse tesi in dottrina e giurisprudenza. In particolare, le Corti di merito hanno evidenziato i problemi legati al parametro dell’autosufficienza economica e alla necessità di valutarla in concreto, richiamando, ad esempio, quali criteri la capacità di sostenere le spese essenziali di vita, l’ammontare degli introiti che consente di accedere al patrocinio a spese dello Stato, il reddito medio percepito nella zona in cui vive il richiedente (si vedano, ad esempio, Trib. Milano, sez. IX, ordinanza 22 maggio 2017). Ancora, si è fatto riferimento alla necessità che il richiedente provi di essersi attivato per reperire un’occupazione lavorativa consona all’esperienza professionale maturata e al titolo di studi conseguito o di essere nell’impossibilità, per impedimento fisico o altro, di svolgere qualsivoglia attività lavorativa (Trib. Roma, sez. I, sent. 23 giugno 2017).
Altra parte della giurisprudenza si era invece discostata dal nuovo orientamento, continuando ancora a fare riferimento al precedente parametro del tenore di vita (cfr. Tribunale di Udine, sentenza 10 maggio 2017, che ha evidenziato che i concetti di “mezzi adeguati” e “indipendenza economica” non trovano riscontro nel tessuto normativo, oltre ad essere labili e forieri di divergenti interpretazioni).
A fronte di tali contrasti, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite non da parte di una Sezione semplice, ma da parte del Primo Presidente della Suprema Corte, il quale ha ravvisato nel contrasto una questione di massima di particolare importanza ex art. 374, comma secondo, cod. proc. civ.
Con la pronuncia del 2018, le Sezioni Unite hanno specificatamente affermato che l’art. 5, comma 6, l. div., è una norma autosufficiente, non essendo necessario ricercare i criteri per valutare l’adeguatezza dei mezzi all’esterno della stessa.
Pertanto, non sussiste alcuna distinzione tra la fase dell’an e del quantum debeatur, essendo necessario “abbandonare la rigida distinzione tra criteri attributivi e determinativi dell’assegno di divorzio, alla luce di una interpretazione dell’art. 5, comma 6, più coerente con il quadro costituzionale di riferimento”. Di conseguenza, i vari criteri indicati nella norma devono essere tenuti in considerazione dal Giudice in posizione equiordinata.
In relazione alla natura giuridica dell’assegno divorzile, la Suprema Corte, superando la tesi della funzione eminentemente assistenziale posta dalle Sezioni Unite del 1990 a fondamento del loro pensiero, ha specificato che allo stesso “deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa”.
A tal proposito, va ricordato che alla sentenza del 2018 sono state mosse delle censure, soprattutto da parte della dottrina, in quanto le Sezioni Unite avrebbero dettato dei principi di diritto in parte motiva poi non specificamente ripresi nel dispositivo, ingenerando confusione tra le diverse funzioni dell’assegno.
Al fine di individuare, pertanto, quale sia l’indicazione nomofilattica fornita dalla Corte per affrontare in modo uniforme le controversie al vaglio della giurisprudenza di merito, va dato rilievo alla circostanza che la pronuncia delle Sezioni Unite pone una particolare attenzione al metodo comparatistico, al fine di analizzare il quadro della legislazione degli altri paesi Europei “in considerazione della natura dei diritti in gioco e della composizione del principio solidaristico ad essi sottesi”; solo il metodo comparato, infatti, con l’analisi delle varie soluzioni offerte in diversi ordinamenti al medesimo problema, permette di individuare le “soluzioni migliori” per il tempo ed il luogo in questione. Inoltre, tale metodo può essere utilmente impiegato anche nell’interpretazione di norme di diritto nazionale nella misura in cui sorgano dubbi sull’interpretazione delle stesse o si riscontrino specifiche lacune di un ordinamento giuridico che devono essere colmate dal giudice e per le quali il procedimento puramente letterale o logico non sia sufficiente. In tali casi, come nel presente in cui è dubbio quale debba intendersi la natura giuridica prevalente dell’istituto analizzato fra le tre evidenziate dalla Suprema Corte, va tenuto presente che l’odierno legislatore sempre più frequentemente si adegua a modelli e soluzioni comparate ed il metodo comparatistico diviene quindi fondamentale nell’analisi della ratio legis della disposizione.
Per ciò che concerne la Francia, l’art. 270, comma secondo, Code civil, stabilisce che uno dei coniugi può essere obbligato a versare all’altro una prestazione di carattere forfettario di natura compensatoria, di regola versata in un’unica soluzione (capital). Solo in via eccezionale, quando l’obbligato non sia in grado di adempiere con una singola dazione, il Giudice può disporre una dilazione periodica, ma per un arco temporale massimo.
Solo per specifica motivazione del giudicante e in via del tutto residuale, è prevista la possibilità di corresponsione di una rendita vitalizia (rente à vie) in casi residuali quali, ad esempio, l’incapacità del coniuge di provvedere autonomamente ai bisogni primari di vita.
Con la riforma del 2000, è stata inoltre stabilita la possibilità di riconoscere una prestazione mista fra rendita vitalizia e corresponsione in via capitale, confermando tuttavia che l’orientamento seguito dal legislatore francese è quello di non riconoscere assegni divorzili a tempo indeterminato, ma di consentire, da un lato, ai coniugi di mantenersi autonomamente o di reinserirsi nel mondo del lavoro e, dall’altro, di configurare tale dazione come una compensazione dei sacrifici sopportati da uno dei due in costanza di matrimonio.
Anche nell’ordinamento tedesco è centrale il principio di auto-responsabilità, ai sensi dei paragrafi 1569 e 1577 BGB e soltanto quando una delle parti non sia in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita può essere richiesto il versamento di un assegno. Ciò accade, ad esempio, quando uno dei coniugi non riesca a reperire un’occupazione lavorativa per ragioni di età, malattia o infermità oppure ancora il diritto sussiste per almeno tre anni dopo la nascita di un figlio.
Regola fondamentale, pertanto, in Germania è quella degli incrementi patrimoniali, sulla base del modello di comunione differita dei paesi del Nord Europa. Soggiacendo a tale regola, qualora le parti non abbiano previsto diversamente, i coniugi non avranno un patrimonio comune e allo scioglimento del matrimonio sarà dunque suddiviso l’incremento patrimoniale prodotto da entrambi in costanza dell’unione, con il versamento di un conguaglio, parametrato in conseguenza.
Dalla breve analisi comparata svolta, pertanto, emerge come regola generale quella dell’autosufficienza di ciascun coniuge al termine del rapporto matrimoniale e della limitazione dell’assegno ad un periodo circoscritto, aspetto riscontrabile anche nei principi redatti dalla Commission on European Family Law (CEFL). Un assegno periodico vitalizio, invece, viene riconosciuto solo in via eccezionale e la corresponsione è inoltre parametrata ad accadimenti particolari.
Corollario di tale tesi è che la funzione assistenziale dell’assegno divorzile, basata sull’aspetto solidaristico letto alla luce dell’art. 2 Cost., non può e non deve essere considerata come equiparata agli altri aspetti perequativo – compensativi.
Così è ad esempio in Germania dove, come brevemente accennato sopra, l’assegno divorzile nei limitati casi in cui viene disposto va parametrato, sotto l’aspetto del quantum, agli incrementi patrimoniali che durante il matrimonio il soggetto avrebbe potuto conseguire e ai quali ha invece rinunciato per favorire lo sviluppo professionale e quindi reddituale del coniuge, con la conseguenza che in base a tale regola, la ricchezza viene redistribuita mediante il conguaglio dei rispettivi incrementi economici.
Con la precisazione, tuttavia, che tali analisi si scontrano necessariamente con la realtà economico–sociale e con la funzione di welfare dello Stato di riferimento: laddove, infatti, in quest’ultimo vi sia un modello di welfare forte, vi sarà una minor necessità della corresponsione di un assegno essendo garantita l’erogazione di prestazioni sociali e sussistendo maggiori possibilità per il soggetto di reinserirsi grazie a tale supporto nel mercato del lavoro, con l’effetto che tali prestazioni statali sostituiscono la funzione dell’assegno divorzile, rendendo superflua la corresponsione di somme da parte dell’altro coniuge allorché si abbracci una funzione compensativa dell’istituto.
In Italia, ove viceversa il sistema del welfare e del reinserimento lavorativo è molto ridotto, la corresponsione di un assegno divorzile, stante la presenza di ammortizzatori sociali, deve essere valorizzata anche quale strumento che consente al coniuge meno abbiente una vita dignitosa sino all’instaurarsi di una nuova situazione lavorativa.
In conclusione, sulla scorta di tali dati, deve ritenersi abbia maggior rilevanza quanto affermato dalla Suprema Corte in parte motiva, offrendo prevalenza alla natura perequativo-compensativa dell’assegno divorzile.
Non va tuttavia dimenticato, diversamente da quanto indicato, che la pronuncia della Suprema Corte attribuisce valore anche alla funzione assistenziale, fondata sull’art. 29 Cost., al fine di fornire, al contempo, protezione alla dignità della persona, evitando la creazione di ingiustificate rendite di posizione.
Se, di conseguenza, il fondamento dell’assegno non deve essere più riscontrato, come accadeva prima del 2017, nel principio di solidarietà ex art. 2 Cost., tuttavia tale funzione deve comunque trovare spazio in particolari situazioni di disagio.
La sentenza del 2018 ha certamente il merito di restituire dignità e importanza al vissuto della coppia nel matrimonio, dando rilievo al principio di solidarietà post-coniugale e senza che il divorzio possa azzerare il passato, come confermato anche da altre disposizioni, quali la previsione di una assegno a carico eredità o la ripartizione della quota del trattamento di fine rapporto.
Tuttavia, il principale problema che si palesa agli interpreti è relativo al passaggio motivazionale nel quale la Corte evidenzia che: “la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativocompensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economicopatrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell’età del richiedente. Il giudizio di adeguatezza ha, pertanto, anche un contenuto prognostico riguardante la concreta possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico derivante dall’assunzione di un impegno diverso. Sotto questo specifico profilo il fattore età del richiedente è di indubbio rilievo al fine di verificare la concreta possibilità di un adeguato ricollocamento sul mercato del lavoro”.
Pertanto ed a tal fine, il principio di autoresponsabilità e di autodeterminazione deve essere coniugato con il principio di solidarietà in concreto, ponendolo a fondamento della spettanza dell’assegno e la pronuncia del 2018 delle Sezioni Unite, se è ben vero che offre delle indicazioni teoriche e degli spunti al giudice di merito per risolvere le situazioni poste al suo vaglio, non fornisce strumenti certi, in particolare in relazione all’iter da seguire.
Poste tali premesse sulla natura giuridica e sulla funzione dell’istituto, ed in base alle indicazioni fornite dalle recenti Sezioni Unite della Suprema Corte, il Collegio ritiene che il Giudice, per stabilire se attribuire o meno l’assegno, debba dunque verificare in primo luogo se sussista un divario rilevante nella situazione economica delle parti, eventualmente esercitando proprio in questa fase i poteri ufficiosi richiamati nella sentenza.
Se tale divario non emerge, non potrà essere riconosciuto alcun diritto al percepimento di un contributo economico da parte del richiedente.
Nel caso contrario, però, non per ciò solo vi sarà diritto ad un assegno divorzile: in presenza di un divario rilevante nella situazione economica delle parti, infatti, si deve innanzitutto comprendere quale sia la causa del divario stesso.
Infatti, solo qualora lo squilibrio sia conseguenza anche dei sacrifici effettuati dal richiedente, il diritto alla corresponsione dell’assegno vi sarà.
Viceversa, qualora nessuno dei coniugi si sia sacrificato a tal fine (solo a titolo di esempio, nel caso in cui matrimonio abbia avuto durata molto breve, non siano nati figli e non vi sono state rinunce delle parti allo sviluppo della propria professionalità per favorire la crescita della famiglia), non vi sarà spazio per il riconoscimento di un assegno divorzile.
In conclusione, dall’attenzione centrale fornita della Suprema Corte nella fase di determinazione dell’assegno al parametro perequativo-compensativo, deve necessariamente ritenersi che vi sarà un diritto all’assegno e che, sotto il profilo del quantum, sarà riconosciuto in misura proporzionalmente sempre maggiore, nel caso di esistenza di un rilevante divario economico – patrimoniale fra i coniugi formatosi anche come conseguenza della circostanza che uno di essi si è sacrificato per la famiglia e per consentire al compagno di sviluppare il patrimonio familiare.
L’assegno, viceversa, non vi sarà, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale fra i coniugi, qualora non vi sia stato alcun sacrificio di uno di essi per la formazione del patrimonio comune nel periodo dell’unione matrimoniale. Se, infatti, deve essere attribuita rilevanza centrale alla funzione compensativa, la quale mira a compensare i sacrifici fatti dai coniugi nel matrimonio, allora non vi può essere spazio per l’attribuzione dell’assegno quando i sacrifici non siano stati effettuati.
Avendo però l’assegno natura composita, è proprio in tale circostanza che deve essere recuperata la funzione assistenziale dell’istituto, riconoscendo al coniuge un assegno divorzile nel solo caso in cui non abbia mezzi adeguati per vivere e non sia in grado di procurarseli (per ragioni di età, salute, situazioni personali o sociali); tuttavia, sotto il profilo del quantum, in tale eventualità l’assegno dovrà essere ricondotto ad un importo sostanzialmente “alimentare”, ossia tale da garantire le esigenze minime di vita della persona.
Assume così nuova rilevanza, la funzione solidaristica dell’istituto, la quale riesce a garantire il rispetto dell’art. 2 Cost. senza, però, che attraverso il ricorso ad essa possano formarsi dei redditi di posizione.
Pertanto, nel solo caso in cui venga riconosciuto l’assegno divorzile – sotto il profilo dell’an – in considerazione della funzione assistenziale (ossia sulla base di un duplice presupposto: il primo, alternativo, o dell’assenza di divario patrimoniale o della presenza di divario ma non generato anche dai sacrifici e dalle rinunce del coniuge debole, il secondo dell’assenza di mezzi adeguati per vivere e dell’incapacità del coniuge di procurarseli), la misura dell’assegno dovrà essere parametrata, sotto il profilo del quantum, a quel tantundem che consenta al richiedente di mantenersi per il tempo necessario a reinserirsi nel mondo del lavoro, senza far rivivere parametri para legislativi quali quello del “tenore di vita”.
Alla luce della funzione compensativa, dell’esistenza di un divario economico fra i coniugi e delle ragioni che hanno condotto alla formazione dello stesso, vanno poi valutati tutti gli altri parametri di cui all’art. 5, comma sesto, l. div., fra i quali posizione centrale assume la durata del matrimonio.
In tal modo, l’istituto così riletto sarà in grado di adattarsi sia alle situazioni più risalenti in cui il modello familiare tipico vedeva soltanto il marito svolgere un’attività lavorativa, mentre la moglie si occupava della famiglia, sia di adeguarsi ai mutamenti storico-sociali della struttura familiare moderna, riscontrandosi oggi sempre più casi nei quali entrambi i coniugi svolgono una professione; come è stato correttamente rilevato da Tribunale di Pavia (sent. 17 luglio 2018) la situazione sociale penalizzante per le donne, rispetto agli uomini, sia nella ricerca del lavoro, sia nelle prospettive di carriera, sia in molti casi nel livello retributivo pur a parità di mansioni, va tenuta in considerazione al solo fine di valutare in concreto se un soggetto possa, dopo il divorzio, reinserirsi nel mondo del lavoro, ma non può essere posta a base della decisione sull’assegno divorzile dando ingresso ad una “locupletazione ingiustificata” basata sul criterio del tenore della vita matrimoniale, superando la funzione compensativa dell’assegno “posto che quest’ultimo non servirebbe a ristorare la parte che, sulla base delle scelte della coppia, ha sacrificato le proprie ambizioni personali di realizzazione lavorativa, ma attribuirebbe invece alla parte medesima un vantaggio superiore a tale sacrificio.”.
Guardando al solo aspetto patrimoniale, è pacifica la consistenza di un rilevante divario nella situazione economica delle parti. Come, però, si è già avuto modo di evidenziare, ciò non è sufficiente per riconoscere il diritto ad un assegno, essendo necessario indagare sulla causa del divario stesso. Pertanto, a prescindere dal divario reddituale e patrimoniale, non essendovi stato alcun sacrificio, non vi è alcun diritto ad un assegno divorzile, che nel caso di specie comporterebbe una sostanziale rendita di posizione, per le ragioni sopra esposte.
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